Immagine di copertina: Copyright Edith Roux / Courtesy Editoriale Lotus
Appunti di psicopatologia urbanistica, autovalori dominanti ed ecologia della mente in memoriam Fiorentino Sullo
Economia – dal greco οἶκος (oikos), “casa” inteso anche come “beni di famiglia”, e νόμος (nomos), “norma” o “legge” – si intende sia l’organizzazione dell’utilizzo di risorse scarse (limitate o finite) quando attuata al fine di soddisfare al meglio bisogni individuali o collettivi
(wikipedia, ad vocem)
Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi
(Maurizio Lupi)
(wikipedia, ad vocem)
(Maurizio Lupi)
Lupi per agnelli
Milano si conferma anche oggi, nel bene e nel male come la capitale della ricerca avanzata del post: dimenticate subito le utopie moderniste di progresso civile e culturale, dopo l’apparentemente innocuo camouflagepostmoderno con bricolage di capitelli, piramidi e colonne che nascondeva il disimpegno etico del nuovo che avanza, ora è la volta del postumano….. Alla (fanta)urbanistica futurista dell’assessore Carlo Masseroli, dove la fiducia nelle sorti progressive veniva sostituita dalla fiducia nella buona sorte (e lui, ingegnere dei sistemi, che aveva promesso di ritornare ai suoi amati diagrammi di flusso ora è catapultato a dirigere Milanosesto Spa per lo sviluppo delle aree ex Falck), al decesarismo democratico che ha inabissato la giunta Pisapia e spento per sempre l’alba arancione di Milano (ma a volte ritornano e, amovetur ut promovetur, Ada Lucia De Cesaris rispunta come grand commis nominata dal Ministero dell’economia a propria rappresentante nel Cda di Arexpo). Tutti ancora al capezzale della suburbanistica del giorno dopo, o fast post, inauguratasi con Expo e ora con Arexpo. Oggi, dulcis in fundo, anche con Pierfrancesco Maran (preconizziamo per lui un futuro di ministro alle infrastrutture….) nel solco della continuità corrono i cavalieri, destri e sinistri, dell’apocalisse urbanistica contrattata di rito ambrosiano sempre a cavallo dei lupi affamati di suolo. Siamo giunti finalmente alla post-urbanistica, proporre e veicolare archifiction, inoculando nell’immaginario sociale la falsa immagine di un ritorno al futuro, ma quando il futuro ormai non c’è più.
Come si può capire fino in fondo questa rivoluzione copernicana dell’urbanistica meneghina?Riassume il meglio delle due posizioni: quella di un mondo che non sarà mai e quella di un mondo che quando si manifesta ha già superato l’orizzonte degli eventi e si ritrae in se stesso annichilendosi e trasformandosi in un buco nero che, come l’Expobuco, si è dimostrato capace d’inghiottire sogni e risorse degli italiani, non meno avido di alcune nostre storiche e ora non più prestigiose banche. È il salto definitivo e irreversibile nella fiction finanziario-architettonica. Come è possibile che tutto accada in una democrazia ormai matura e forse avanzata? Basta deformare l’orizzonte epistemologico che vuole definire il progetto come un processo lineare continuo che parte da un punto (il cosiddetto prima) e arriva a un altro (il cosiddetto dopo), fino a far coincidere i due punti temporali in uno solo, tecnicamente chiamato scenario. Anche costruire non sarà più necessario… La smaterializzazione del progetto comporta la sua scomposizione in quanti fotonici, che per essere liberi di viaggiare alla velocità della luce, si distaccano da tutto quanto viene definito convenzionalmente come iter e legittimazione sociale di un progetto, per entrare nel nuovo ambito dell’aleatorietà determinata ai fini della grancassa della psicopropaganda virale del Ministero della Verità & Marketing. Le soluzioni sono aleatorie e discrezionali ma rimandano a quantità incognite, di autovalori dominanti che snaturano il carattere “pubblico” e la trasparenza del mercato, negoziati in modo opaco e indiretto per poi essere rapidamente cartolarizzati e avviati al consumo.
Come si traduce tutto ciò in burocratese urbanistico? La parola magica è Accordo di programma. Come ha scritto Maria Cristina Gibelli, «è a Milano che ha fatto i primi passi una deregolazione urbanistica che ha poi trovato una configurazione organica con la LR 12/2005 sul Governo del Territorio e i suoi molteplici, e sempre peggiorativi, emendamenti successivi. È a Milano e hinterland che si stanno cogliendo i frutti avvelenati, in termini di coesione sociale, vivibilità, ma anche competitività, di quella stagione». Proprio su questo Accordo di programma degli ex scali Fs (1,25 milioni di mq che possono valere, secondo una stima prudenziale, sino a 1,3 miliardi di euro) si è arenata la giunta Pisapia. Ed è lo stesso Accordo, con qualche intervento di chirurgia estetica e social, che la giunta Sala si appresta a convalidare entro maggio con lo stesso spirito e gli stessi cosmetici principi con cui la giunta Pisapia ha poi ratificato il Piano di Governo del Territorio Masseroli-Moratti. La natura dello scambio segue la classica equazione asimmetrica dell’incremento di valore della speculazione fondiaria: ossia, prendo un’area a valore nullo o addirittura negativo, come in questo caso, e attraverso una trasformazione che è innanzitutto linguistica (la promessa di un cambio di destinazione d’uso), la rendo produttrice d’immaginario, di futuro. Ora bisogna però stabilire se nella promessa di questo futuro la città assume il carattere di feticcio della merce, ossia, parafrasando Arjun Appadurai, tenda esclusivamente «a mascherare i rapporti sociali che rendono possibile la sua appropriazione a scopo di profitto da parte del capitale» (Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata, Milano 2016, p. 17).
Architettura quindi non più come disvelamento, come invenzione critica, come nuova utopia del possibile, frammento di verità, progetto di emancipazione culturale e sociale, ma come tragica maschera che nasconda le contraddizioni e la falsa coscienza dei rapporti in atto, supina ai dettami imperanti dello spirito dell’incertezza.Architettura come formalizzazione, astrazione e commercializzazione del meccanismo del rischio stesso. Allora niente di meglio che l’immarcescibile visione del paradiso che, come ci ha spiegato Marcel Proust, è solo quello che abbiamo perduto. Come tutte le visioni beatifiche, sono misteri che oltrepassano la capacità di rappresentazione sensibile e la comprensione razionale. E allora avanti ancora con quell’ormai trita, frusta e paradossale menata improponibile della città giardino universale dove tutti non fanno altro che passeggiare ridenti e giulivi, innaffiano le piante sui terrazzi rigogliosi dove fioriscono orchidee perenni, vanno in bicicletta e portano a spasso cani…
Così si compie il miracolo della trasformazione di un reietto terzo paesaggio postindustriale “scalo ferroviario obsoleto da bonificare”, un Vicolo Corto pieno di problemi logistici, infrastrutturali e costi di bonifiche ambientali, a un meraviglioso “Central Park” (Public Garden non si usa più…) che rimanda alla favolosa casella del Parco della Vittoria del Monopoli, su cui tutti vogliono mettere le mani. Al subentrato “Central Park” vengono poi attribuiti dei volumi virtuali trasformati immediatamente in denaro sonante per i fortunati proprietari delle aree medesime, al di là che poi le suddette volumetrie vengano prima o poi realizzate. La società titolare delle aree (Ferrovie dello Stato, che ha appena acquisito la linea 5 della metropolitana, e spinge da tempo anche per rilevare la maggioranza in Trenord al posto della Regione…), acquisiti i diritti “rapinati” con le equivoche pratiche di sdemanializzazione alla Giulio Tremonti, una volta firmato l’Accordo di programma li iscrive a bilancio ed è così ora pronta a quotarsi in borsa per poi essere privatizzata dagli speculatori finanziari. La polpetta indigesta viene poi condita in salsa social e adeguatamente lubrificata dalla politica compiacente, dall’establishment di programmatori e facilitatori, espertoni meglio se professori specialisti in supercazzole tecnichesi e storytelling a lieto fine, stampa compiacente, menestrelli e azzeccagarbugli specializzati nel paralogismo politico.
Dispiace vedere sempre in prima linea rettori e direttori di dipartimenti universitari e politecnici(di per sé enti terzi e non fiancheggiatori conto terzi… spesso chiamati sempre in camera caritatis, quando l’operazione è riuscita e il paziente è morto), pronti a correre al capezzale di una politica sputtanata per spendere le ultime briciole di dignità rimasta a fare da stampella alle strampalate e raffazzonate speculazioni territoriali che servono a colmare i buchi di bilancio di altrettante e spregiudicate gestioni finanziarie di enti pubblici e parapubblici come Fiera, Aler, ospedali, ecc., a cui si aggiungono, come contorno, il circo barnum dei visionari zelanti architetti con incarichi diretti o pseudodiretti, sempre compiacenti nell’offrire i propri servigi, ansiosi di lasciare il segno in ogni angolo della città, rigorosamente bipartisan, assunti in pianta stabile a tutto regime per la clonazione indefinita dello status quo e delle sue best practices, con sprofluvio di kermesse, articoli, forum e seminari, senza dimenticare spruzzate quanto basta di proteste e opposizioni antagoniste tanto per far credere che la democrazia sia ancora viva. Ma Milano non era la capitale dell’intellighentia critica? «Lotus International» ha dedicato un Forum e il numeroMeteo Milano al dibattito in corso.
Un film già visto con la Fiera delle vanità, i grandi quartieri di lusso, gli Ospedali riuniti, l’Expoballa, Cascina Merlata… Ora è il turno degli scali ferroviari che, però – e questa è forse la maggiore difficoltà -, sono incuneati nel tessuto del cuore di Milano e lambiscono la città storica e i quartieri che ne costituiscono l’ossatura identitaria e il patrimonio genetico. Un’operazione a cuore aperto, irreversibile, che rischia di sfigurare per sempre ciò che è sopravvissuto dell’identità di Milano.
Anche per questo, tra i più di trecento architetti e firmatari dell’appello (rassegna stampa, elenco firmatari e interventi nel sito scaliferroviarimilano.blogspot.it) è nata l’idea di costituirsi nell’associazione “Città bene comune”, per affermare il primato della cittadinanza attiva, ben consapevoli che non saranno i tecnici, i regolamenti, le dispute di diritto, il finto teatrino della politica a salvarci ma solo la vera politica con la P maiuscola, ovvero quella che, come diceva Aristotele, significa amministrazione della polis per il bene di tutti: la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano.
Débat public alla milanese…
Salzwasser in der Tennishalle! Ja, das ist ärgerlich, aber nasse Füße sind noch lang nicht das Ende der Welt
(H. M. Enzensberger, Der untergang der Titanic)
(H. M. Enzensberger, Der untergang der Titanic)
Nella palude conformista milanese qualcosa non ha funzionato. Il dubbio si è fatto sospetto, a cui son seguiti la paura, lo sconforto e il tormento di un’angoscia ricorrente. Gli spettri dell’omologazione globale, i mostri come il quartiere fantasma griffato Daniel Libeskind di condomini sghimbesci abitato solo da dj tatuati con la Porsche, le Costa Concordia arenate di Zaha Hadid in piazza Giulio Cesare, i grattacieli mignon di City Life, la turbina a vento di Cesar Pelli sono ormai tra noi! Questi fantasmi si aggirano cupi e minacciosi nel salotto buono, turbando le coscienze dei milanesi che hanno sviluppato ormai una punta di diffidenza bipartisan, nonostante tutti gli sforzi della politica di sedarli e gli imbonitori che vendono lambrusco spacciandolo per champagne.
Alla luce di queste non esaltanti esperienze, risulta oltremodo patetico il tentativo di far passare per débat public quello che invece è astuta opera di disinformazione politica e di creazione del consenso. Meccanismo ormai rodato, per quelle operazioni di mattone deluxe certo più alla portata del fiato corto e delle idee stantie della politica contemporanea che dell’urbanistica avveduta e previdente e della pianificazione strategica lungimirante. Una politica che di moderato ha spesso solo la cultura e la fiducia nell’intelligenza critica.
Nonostante tutto e forse anche meno male, non sono bastate certo le cure e visioni dei cinque architetti-scenografi chiamati al capezzale per tessere gli scenarios e stimolare l’appetito degli investitori a sedare la diffidenza dei milanesi. Questo l’obiettivo della tre giorni di workshop milanese organizzata a fine dicembre 2016 da FS in “collaborazione” con il Comune. Dopo il lungo battage del «Corriere della Sera» sulle neoallucinazioni forestali del transgenico e sempre più green Stefano Boeri (il cosiddetto Fiume verde, il Pratone…), FS ha chiamato lo stesso Boeri (Studio SBA) e il “secchione” Cino Zucchi (CZA, che forse si poteva risparmiare la pagliacciata…), oltre a Benedetta Tagliabue (EMBT), all’olandese Francine Marie Jeanne Houben (Mecanoo) e al cinese Ma Yansong (MAD Architects). In attesa, come recitava il comunicato stampa, «del supporto di un advisor tecnico internazionale, le idee dei cittadini saranno trasformate in elaborati e modelli. Le cinque visioni possibili verranno presentate al Comune di Milano nel marzo 2017. L’Amministrazione comunale deciderà successivamente come gestire il processo di trasformazione urbana. Farini, Porta Romana, Porta Genova, Greco-Breda, Lambrate, Rogoredo, San Cristoforo sono i sette scali ferroviari milanesi inseriti nel progetto di riqualificazione, per una superficie complessiva di un milione e 250mila metri quadrati».
La musica è sempre la stessa… nonostante il Gran Ballo Excelsior di politici locali e nazionali, la variegata fauna di biodiversità architettonica presentata, l’ottimo catering, il parterre prestigioso e gli special guest a stuzzicare l’atmosfera festosa e arguta da Festival della mente, oggi di gran moda, la partecipazione prefestiva alla tre giorni in massa di architetti affamati di crediti formativi e di pressoché tutto il Comune di Milano in licenza studio. Oggi finalmente un pionieristico studio (A. Casavola, Perché comprare Parco della Vittoria conviene? Modellizzazione e studio sugli autovalori dominanti del gioco del Monopoli, s.d. Università della Calabria), ha messo a disposizione una tabella dei valori fondiari che ci consente di capire le ragioni profonde di tanto agitarsi: «Abbiamo quindi in questa tabella dei fattori che ci permettono di determinare la convenienza relativa di un appezzamento rispetto agli altri, tenendo unicamente conto della rendita che essi sono in grado di garantire. In questa modellizzazione notiamo che l’elemento che continua a rimanere per rendita asintotica e massimale più conveniente è Parco della Vittoria, sebbene non sia il più frequente: questo primato spetta infatti (tra gli appezzamenti che danno rendita) a Corso Raffaello». L’autore subito ammonisce sull’esagerato ottimismo che potrebbe derivare dalla sensazionale scoperta: «Si noti infine la logica e attesa altissima frequenza della prigione, dovuta all’uso della regola del doppio sei».
Per questa urbanistica contrattata di rito ambrosiano è sempre buono il momento di proclamare che due più due fa cinque, e farcelo credere. Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basa. La visione del mondo che la informa nega, tacitamente, non solo la validità dell’esperienza democratica ma l’esistenza stessa di una realtà esterna all’infuori di essa stessa.
In questa strategia della distensione e della creazione del consenso, la narrazione verde assume i toni di un astutocamouflage, che serve a nascondere i veri problemi di una programmazione che si è allineata alle prospettive di rischio e di performance sul brevissimo termine, e a quei calcoli che appartengono più alle prospettive monopoliste e di dumping finanziario tardocapitalista in una prospettiva di mercato viziato e drogato che alle logiche di promozione e sviluppo di una città, di un distretto territoriale. L’ormai inflazionata sussidiarietà, di per sé non un male, cercava di rimodulare il controllo dei rapporti stato-individuo sulla scala territoriale. Ha praticamente fallito, in quanto, a parte nicchie ecologiche particolari non fa altro che amplificare e duplicare difetti già immanenti alla scala del potere centrale, per di più appesantite dalle consuete dinamiche socioantropologiche. La distribuzione di poteri e poltrone in una prospettiva socio-territoriale ancora più angusta non ha fatto altro che annichilire le responsabilità e la capacità decisoria intorno ad argomenti di generale interesse nazionale. Un altro effetto perverso è stato quello di prosciugare e smontare quelle sacche di sapere professionale e di buona pratica amministrativa che resistevano nella macchina comunale per affrontare le sfide strategiche e di larga scala, oggi rese ancor più critiche dalla questione irrisolta della “regione metropolitana”. In altri casi, la gestione “dal basso”, come spesso è avvenuto per i beni culturali, è riconosciuta come un micidiale boomerang compromissorio, dove lamancanza di una chiara distinzione tra ciò che è di natura intrinseca bene pubblico e ciò che è privato, a causa di una legislazione incoerente e carente sul fronte delle garanzie di legittimità e per interpretazioni viziate per conflitto d’interessi, in mancanza di una legislazione aggiornata ma soprattutto efficace, ha spesso generato, nei casi non giudiziari, equivoci e proliferazione di contenziosi. Il carattere di contratto negoziale tra attori, assunto nella quasi totalità dei casi, ha naturalmente bisogno di un quadro legislativo raffinato e di controlli efficaci e tempestivi per garantire trasparenza, equità e legalità(favorire, non garantire a tutti i costi il negoziato). E non è detto che basti, ossia è condizione necessaria ma non sufficiente, perché è indispensabile che tutto avvenga in un quadro sociale che attui il pieno rispetto di un corretto e fisiologico esercizio delle virtù democratiche.
Per questo, e per la persistente consapevolezza di una cronica incapacità di attuare un indispensabile aggiornamento senza derogare dai principi cardine della Carta costituzionale, il rapporto società-politica deve essere inquadrato anche nei termini di una “revisione” dei principi del contratto di gestione amministrativa che regolano anche il rapporto della gestione dei beni comuni, che s’intrecciano con un diritto privato oggi sempre più aggressivo e prevalente. Questa materia “sensibile” ha avuto finora scarso ascolto dalla politica in termini legislativi, e ha spesso costretto all’uso del referendum, ma ha costituito un fertile terreno di confronto tra “beniculturalisti” e “benicomunisti”, costituzionalisti, ambientalisti ed ecologisti. E ora, per la prima volta, ha destato anche una folta rappresentanza di architetti, urbanisti, intellettuali e cittadini attivi, una società civile milanese trasversale, transgenerazionale e bipartisan, che al grido di “Città bene comune” ha trovato una naturale, inedita convergenza “politica” di obiettivi, cercando nuovi strumenti e spazi per opporsi, resistere e denunciare rischi e limiti di una situazione che si è protratta per troppo tempo e i cui guasti non siamo in grado di prevedere fino in fondo.
Davide Borsa