venerdì 27 gennaio 2017

L'opinione di Paolo Deganello sugli scali ferroviari milanesi




















Gli scali impongono l'elaborazione di un progetto sulla mobilità sul territorio che però é elaborazione possibile se solo prima si definisce quale "tipo di città" si vuol progettare, a partire dai "1.300.000 metri quadrati di cui soltanto il 10 per cento continuerà ad ospitare binari attivi".
Giustamente il prof. Giancarlo Consonni nella sua adesione mette in evidenza, dalla Bicocca all’Expo a City life, cosa vuol dire delegare ai proprietari di aree. Queste sono alcune delle molte grandi occasioni mancate i cui risultati tutti negativi sono ben presenti nella Milano d’oggi. Sull’ultimo numero di Lotus su Milano, un bell’articolo di Nina Bassoli  legge giustamente lo scalo Farini un "Grande Vuoto". Teniamo presente che i sette scali sono prima di tutto sette grandi vuoti.
Propongo di costituire un gruppo di lavoro ristretto che considera  che questi vuoti devono oggi e in prospettiva riempirsi di una nuova città  che viene domandata ma che nessuno ha ancora  interesse a costruire , capace con la sua carica innovativa di riqualificare la città tutta esistente. Il limite dell’articolo della Bassoli è di pensare che si possa trovare dentro la cultura disciplinare dell’architettura, per quanto estesa anche ai contributi di un  Lucius Burckhardt, sociologo, economista ma anche storico molto presente nelle discipline del progetto, una risposta innovativa a questi grandi vuoti da riempire.
Credo che la politica ci deve dare le linee guida per riempire questi vuoti con un'altra città domandata ma non costruita, capace di riqualificare e aggiornare l’abitabilità  urbana oggi. Guido Montanari docente di urbanistica a Torino, ma sopra tutto assessore all’urbanistica del comune di Rivalta di Torino, 19mila abitanti, cancellò con il consenso cittadino 30.000 metri quadri di terreni edificabili del PRG vigente. Maurizio Mangialardi, sindaco di Senigalia e presidente Arci Marche, ha chiesto con successo a 165 proprietari di terreni di rinunciare all’edificabilità prevista nel vecchio piano e di convertire con variante al piano questi terreni alla sola vocazione agricola. L’elenco di queste iniziative, soprattutto nei piccoli centri, può continuare. Abbiamo giá costruito troppo e la prima azione poltica da chiedere e pretendere da una amministrazione oggi è di promuovere il contenimento dell’edificazione alle sole molte strutture di servizio collettivo di cui la vecchia cittá è carente. Parte di questa richiesta è non solo il verde, foglia di fico di ogni speculazione,  ma la “valorizzazione agricola” dei vuoti urbani. Sappiamo tutti che i progettisti di FS Sistemi Urbani ci proporranno piu o meno storti grattacieli “affogati, mimetizzati, nascosti” dentro estese aree a verde più o meno attrezzate. Si estenderà sempre piu la “furbata” di legittimare l’incremento di cubatura residenziali di lusso con terrazzi alberati, muri verdi, magari si proporranno anche orti urbani ad ulteriore legittimazione, insieme al verde, della logica immobiliare. Non è un verde a legittimazione di nuova edificazione commerciale, sempre tendenzialmente di lusso, quello che chiediamo.
L’Amministrazione deve prendere atto che il già edificato è eccedente la domanda di cubatura costruita da gestire nel libero mercato, che è necessario il riuso edilizio del già edificato e che la grande domanda di case è una domanda di casa sociale, casa socialmente necessaria per chi nel mercato non può essere protagonista. La nuova città dentro la città può essere una città domandata che non è stata ancora costruita, che rilancia l’edilizia pubblica e diventa la città dell’Inclusione. Questi sette vuoti urbani possono diventare una cittá dell’incontro tra centro e periferia, nuove cittá a bassa edificazione, tutta socialmente motivata a riequilibrare la logica perversa dell’edificazione immobiliare speculativa che ha costruito la città circostante, capace di venire incontro ad una domanda di casa che la vecchia cittá che sta nell’intorno di questi vuoti non riesce a soddisfare. Nei vuoti edificati in dimensioni molto contenute, dove il suolo è anche occasione di una agricoltura urbana prima che di ameni parchi, dove i soggetti sociali piú fragili possono ritrovare l’interesse ad una agricoltura urbana. L’inclusione comporta che si dovranno anche localizzare abitazioni per immigrati quali parte di un tutto che non trova casa nel mercato, ma anche centri giovanili e tutti quei servizi che facilitano l’inclusione dei nuovi arrivati, scuole, strutture di inclusione scolastica, asili, case laboratorio per la valorizzazione di saperi artigiani di diversa provenienza, che sono una risorsa non una disgrazia, luoghi di culto per etnie diverse, spazi per la promozione culturale delle mille diversità, una città che sa valorizzare immigrazione e rifugiati che sono già e sempre piu possono essere la linfa vitale, non per le periferie degradate, ma per una nuova modalitá di fare cittá. Organismi di autogestione che promuovano e facilitino una riprogettazione dal basso della città (si veda l'ultima Biennale di Architettura curata da Alejandro  Aravena).
FS Sistemi Urbani commissiona ad architetti “prestigiosi “ nuove “visioni “urbane, come se il progetto fosse una questione di “rendering “piu o meno accattivante, non una precisa scelta politica. A questa strategia camuffata di cittá ormai vecchia e sempre meno abitabile contrapponiamo una città dell’inclusione estesa a tutti i soggetti deboli, da realizzarsi nei vuoti urbani degli scali, e questo è il progetto politico che come progettisti rivendichiamo, non il lamento di professionisti esclusi. C’è un'altra cultura del progetto, che non interessa certo la grande finanza, certamente minoritaria ma che non rinuncia ad usare il progetto come bene comune. Certo è un progettare volontario, ma ben diverso del progetto di "rammendo" delle periferie del Senatore Renzo Piano. Noi proponiamo nei vuoti una nuova città ponte tra centro e periferie che cerca di usare i vuoti degli scali per realizzare il progetto di una profondamente diversa città che, ripeto, viene domandata, non è progetto utopico
Molti progetti, nei corsi del Politecnico, hanno coinvolto giovani architetti o ancora studenti che hanno affrontato questo tema. Possiamo chiedere ai docenti che hanno affrontato nei loro corsi i temi degli scali di mettere insieme eventuali progetti che andavano in questa direzione? Possiamo invitare gli studenti a presentarli e spiegarli ? Quei giovani progettisti potrebbero partecipare ai nostri gruppi di lavoro e diventare i progettisti di quei concorsi che comunque anche Maran ha promesso. Un progetto dal basso non può ignorare i giova i progettisti.
A partire da queste sette città nuove nella città esistente va affrontano  il grande tema della mobilità, con un gruppo con competenze specifiche, un tema che faccia diventare questi vuoti luoghi nevralgici di connessione tra centro e periferia, Ovviamente una mobilità sempre più pubblica.

Paolo Deganello

giovedì 26 gennaio 2017

L'opinione di Maria Carla Baroni sugli scali ferroviari milanesi




















Non sono nè un'architetto, nè un'urbanista, nè una trasportista, ma una "politica", nel senso che amo partecipare a tutto quanto riguarda la città (tà politicà) e in questa veste, oltre che per il mio incarico di partito, desidero lanciare alcune idee, alcune suggestioni sul riuso e sulla riqualificazione degli ex scali ferroviari, che a mio parere costituiscono in buona sostanza la revisione del PGT che la giunta sta avviando.
Per la dislocazione degli ex scali nella città la loro riqualificazione dovrebbe connettersi strettamente anche al cosiddetto "Piano periferie" di Rabaiotti, che non deve limitarsi al recupero edilizio e alla riqualificazione energetica dei quartieri ERP, Che pure è improcrastinabile.
In primo luogo - BEN PRIMA di progettare che cosa realizzare in ogni singolo ex scalo - bisognerebbe  a mio parere utilizzare il complesso delle superfici come spazio per potenziare e ridisegnare la mobilità con mezzi pubblici delle persone in senso trasversale e circolare, come hanno fatto o stanno facendo altre grandi città europee, smettendola con le linee radiocentriche e tenendo conto che la Città Metropolitana di Milano è in senso fisico una unica città, che va considerata, connessa e riqualificata in quanto tale.
Che cosa prevede in materia di mobilità il Piano strategico del territorio metropolitano approvato nel maggio 2016 da un Consiglio metropolitano di secondo livello nell'ignoranza e nell'indifferenza generale?
Come secondo aspetto a me piacerebbe molto che all'interno di ogni ex scalo si realizzasse una PIAZZA centrale, riprendendo la tradizione italica della piazza, dall'agorà della Magna Grecia al foro delle città romane alle piazze medioevali e rinascimentali e pure moderne e contemporanee; non solo una piazza bella e vuota, ma come luogo di incontro e di attività varie, anche come luogo di governo, con la presenza di sedi istituzionali, come la piazza era un tempo.
Perchè ad es. non realizzare nelle piazze dei 7 ex scali nuove e più belle sedi per 7 Municipi, adibendo le attuali sedi degli stessi ad altri servizi comunali, ad es. ai Centri Donna Polivalenti, e ad altre attività pubbliche o di interesse pubblico? soprattutto per la socialtà e la cultura, gestite direttamente dal pubblico o anche da soggetti sociali a cui assegnarle a canone simbolico?
Come terzo aspetto a me parrebbe fondamentale connettere le nuove realizzazioni - edifici e verde pubblico - al tessuto urbano circostante, spesso anomimo e brutto, progettando unitariamente, come funzioni e come architettura, il "dentro" e il "fuori intorno" a ognuno degli ex scali, in modo che ogni progetto non rimanga una cattedrale nel "deserto" urbano, ma contribuisca alla riqualificazione dei quartieri circostanti, di edilizia pubblica o privata che siano.
COME connettere il "dentro" e l' "intorno" e fino a che distanza dal "dentro"? ciò dovrebbe dipendere dalle caratteristiche edilizie, funzionali, sociali dei quartieri circostanti e dal che cosa serve per riqualificarli e per dotarli delle funzioni,  dei servizi e degli elementi qualitativi mancanti.
Elementi di connessione potrebbero essere: raggi verdi attrezzati, passerelle attrezzate, richiamo di elementi architettonici o comunque visivi (monumenti, statue, fontane, ecc.), edifici da recuperare e nuovi spazi verdi o riqualificazione di spazi aperti più o meno abbandonati nei quartieri circostanti, da realizzare contestualmente al progetto "dentro" l'ex scalo, e non so che altro.
Non ho risposte, non è il mio mestiere: pongo solo una questione che a me pare fondamentale.  
Rimane l'esigenza di realizzare molta nuova edilizia pubblica di qualità (edilizia, energetica e anche estetica).
Si pone ovviamente il problema dei costi, Ma è risaputo che quando c'è la volontà i soldi si trovano. Si tratta di effettuare delle scelte. Ci sono poi i fondi europei e le fondazioni che si aspettano un ritorno di immagine in cambio di interventi di interesse pubblico. Anche questo non è il mio campo, ma a Milano non mancano esperti in materia.
Maria Carla Baroni

martedì 3 gennaio 2017

L'opinione di Maria Cristina Treu: "Sugli scali ferroviari"



















Tre sono le motivazioni della contrarietà di molti nei confronti della recente iniziativa di FFSS e della città di Milano
La prima ci obbliga a ricordare che le prime riflessioni e elaborazioni sui destini degli scali sono state condotte almeno in due occasioni che, negli ultimi dieci anni, hanno visto l’Amministrazione Comunale e le  FFSS collaborare con più architetti e studenti del Politecnico oltre che esperti in altre materie e con i cittadini interessati. Come di programmatica queste elaborazioni sono state presentate in più incontri pubblici durante i quali sono state presentate più proposte, oggi, documentate in apposite pubblicazioni
La seconda ci ricorda che nelle occasioni su ricordate più di una voce si è sollevata per impegnare le amministrazioni a esprimersi su una visione di futuro , di una città per chi, di quella che molti considerano un’area metropolitana con una grande attrattività per la presenza di centri di produzione innovativi nella formazione e nella cura della salute, non così per quanto attiene la qualità dell’ambiente e la mobilità.
Ma che fine hanno fatto queste elaborazioni che, al di là dei costi monetari e umani, avrebbero potuto suggerire quantomeno un programma di cura per queste  aree “sospese” tra una piccola città come Milano  e i comuni della sua area metropolitana che, prima ancora di una risposta sulle potenzialità edificatorie, si aspettano di essere inseriti in un rete di servizi che agevoli l’accessibilità alle grandi funzioni urbana.
La terza motivazione riguarda il metodo che Comune ci ripresenta come innovativo per la partecipazione cui si richiama e per il coinvolgimento di  architetti e di esperti che dovrebbero suggerire un disegno, un Piano Attuativo, per gli stessi scali. Eppure il comune ha già a sua disposizione non solo i materiali già depositati e resi pubblici delle elaborazioni su ricordate ma anche la valutazione di altre esperienze, come quelle dei Nove Parchi per Milano e il Metro Bosco, iniziative non sempre concluse anche per quanto riguarda le operazioni immobiliari che vi erano sottese.
D’altra parte l’intervento dell’Amministratore delegato delle FFSS ha ribadito, nel corso del suo intervento nel terzo giorno della recente iniziativa pubblica sugli scali, che il core business della holding da lui diretta è costituito dalla rete del trasporto su ferro che dovrà essere integrata con quella del Trasporto Pubblico locale. Una affermazione più che condivisibile se non altro per il fatto che, oggi, i servizi a sostegno delle nuove economie di scala sono soprattutto le reti materiali e immateriali . Inoltre le FFSS dovrebbero essere dotate da un programma di opere per inserire l’area metropolitana nella rete internazionale, regionale e locale del trasporto su ferro in accordo con la rete delle metropolitane e della viabilità su gomma. Una posizione impegnativa soprattutto se si ricorda che da pochi giorni è stata aperta la nuova Galleria del Gottardo destinata anche al trasporto di merci . Merci che, sul versante italiano, rischiano di andare a incrementare il trasporto su gomma.
Ciò detto non è proprio il caso di imputare una posizione strumentale a chi chiede al Comune l’urgenza di indire un concorso aperto a tutti sulla base di linee guida ben più definite di quelle appena deliberate: in mancanza di valori qualsiasi cosa può essere ammessa e il rischio è un accordo di programma asimmetrico tra un soggetto pubblico ed uno privato su aree di provenienza demaniale. Un accordo di natura prevalentemente immobiliare in assenza di un programma integrato per la mobilità e una rete di spazi verdi di connessione tra l’abitato urbano denso e i grandi parchi sovra locali.
Gli spazi di cui stiamo parlando hanno una storia che rinviano a un insieme di questioni non solo urbanistiche; non sono spazi liberi adatti a qualsiasi utilizzo a partire da quello immobiliare per estrarre rendita e capitalizzare un patrimonio per collocarsi in borsa. Ogni spazio va pensato in relazione alla città nel suo complesso e soprattutto rispetto all'ambiente sociale, culturale ed economico in cui è stato prodotto e oggi si viene a trovare: gli scali sono aree che la città non conosce e che,  oggi, possono produrre reddito e, al contempo, costituire una opportunità per migliorare le condizioni di vivibilità dell’intera area metropolitana. Questi spazi non sono tutti uguali e ogni decisione sul loro utilizzo non può che derivare da una conoscenza storica, da una prospettiva sociale e da una dimensione etica prima di ogni altro interesse economico. La riqualificazione degli scali ferroviari è una prova importante per la pianificazione urbanistica e per l’architettura contemporanea: richiede di sostenere un programma di bonifiche, di avviare  iniziative di cura dei manufatti e di coinvolgimento delle persone che vivono nell’area e nei quartieri limitrofi, di intervenire senza definire e normare ogni angolo di spazio,e soprattutto, impegna l’amministrazione comunale in un lungo percorso di realizzazione di opere e di valutazione dei risultati.

Maria Cristina Treu

Considerazioni  del  filosofo Papi
Vorrei ricordare che l’approvazione di un accordo di programma comporta, a norma del comma 6 dell’art. 34 del D.Lgs. n. 267/2000, la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle opere e che questi tre requisiti sono inscindibili. Vorrei sbagliarmi ma almeno l’indifferibilità e l’urgenza non li vedo proprio, sopratutto nell’attuale situazione del mercato edilizio e per le ragioni ben illustrate dalla ricerca condotta nel 2015 dal Politecnico di Milano: “E infine i vincoli e le opportunità rintracciabili nei profili amministrativi, dovendosi ancora precisare se l’attuazione degli interventi opererà in variante o meno alla pianificazione vigente e quali siano le condizioni di fattibilità procedurale di eventuali “usi temporanei”. La lunga prospettiva temporale della trasformazione, infine, che va ben oltre l’arco decennale di cogenza dello strumento pianificatorio – conformativo, suggerisce l’adozione di una strategia di “manutenzione continua e programmata” la cui gestione sia affidata a un qualificato Collegio di Vigilanza (Bazzani).”.